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Specchio antico

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Ora vediamo come in uno specchio antico (San Paolo)

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Ciclostile

Sto scrivendo un articolo e inciampo in una parola: ciclostile. Mi toccherà spiegarla, sulla rivista non posso mettere un link a Wikipedia, chi sa più cos’è un ciclostile oggi? Oggi che abbiamo tutti una stampante in casa,  che con un post su Facebook raggiungiamo decine di amici con la speranza che lo condividano e diventi virale. E lo stesso dicasi per il tweet, la foto su Istagram e il video su You Tube. E poi se vogliamo raggiungere tutti i nostri contatti basta aggiungere gli indirizzi ad una e-mail. O spedire un messaggio ad un gruppo di WhatsApp.

Ma prima del computer c’era il telefono (fisso) e c’erano le poste. E per fare una copia di una lettera c’era… , no, non c’era niente, neanche la fotocopiatrice. Al massimo, in qualche ufficio c’era una macchinetta “a spirito” che permetteva di fare una-copia-una trasferendo i caratteri per contatto con l’alcool. Ci si doveva pensare prima. Se le copie erano poche si usavano diversi strati di carta carbone e carta velina infilati nella macchina da scrivere. Se si pigiava forte si arrivava a sei copie in un colpo. E se i numeri erano più alti si doveva ricorrere al ciclostile.

Ciclostile

Ciclostile al "Museo del Comunismo" di Praga

Il ciclostile. Di solito da bambini se ne faceva la conoscenza in parrocchia (o nella sezione del partito) dove, in una stanza  qualcuno girava la manovella di una rumorosa macchina per sfornare una pila di fogli stampati su una carta ruvida odorosa di inchiostro. Nascevano così gli avvisi da distribuire, in genere a mano, uno per uno, casa per casa o con un volantinaggio. Io distribuivo quelli dell’Azione Cattolica.

Il ciclostile. Un bambino curioso come me trovava prima o poi chi gli spiegava come funzionava il ciclostile. Il punto di partenza era la matrice, un foglio di carta sottile ricoperto di cera che veniva asportata dove battevano i martelletti della macchina da scrivere . La matrice veniva poi fissata su un tamburo inchiostrato e l’inchiostro, passando attraverso la carta rimasta scoperta, imprimeva il testo sul foglio. Il lavoro non era semplice. Il testo andava battuto con attenzione, per correggere gli errori non bastava il tasto “backspace”. Si ricoprivano i caratteri con una specie di smalto per unghie, che doveva asciugare prima di ribattere. Poi la matrice si doveva stendere sul rullo e passare alla stampa. Alla fine un’altro passaggio delicato: sbarazzarsi della matrice intrisa di inchiostro senza sporcare sé stessi e tutto quanto intorno. Un lavoro di fiducia, riservato a pochi eletti.

Il ciclostile. Nel ‘68 avevo sedici anni. Una delle immagini ricorrenti in quegli anni è quella di uno o due studenti in eskimo e sciarpa rossa sulla porta della scuola che distribuivano una bracciata di volantini, naturalmente ciclostilati. Se su quel foglio c’era scritto “ASSEMBLEA” o “SCIOPERO” non si faceva lezione e, a seconda dei casi, ci si riuniva in una sala rimediata in qualche modo oppure ci si disperdeva per i giardinetti, la spiaggia, i bar o i grandi magazzini. Per i più, il resto del volantino contava poco.

Il ciclostile. Eppure nello stendere quei volantini ci mettevamo impegno. Ricordo un pomeriggio, in un’aula della scuola benevolmente concessa per un “Comitato di base”. Eravamo poco più di una decina di volenterosi, ci siamo messi a stendere un documento, non ricordo più se per commentare un evento, progettare la scuola del futuro oppure cambiare il Mondo (che comunque era il fine ultimo). Di sicuro eravamo un gruppo assortito, con pochi o vaghi riferimenti alle forze politiche di allora. Fra una precisazione e l’altra stendemmo una paginetta, che ci sembrò fondamentale per i destini del Mondo o almeno per quelli del nostro Liceo. Fu allora che qualcuno disse la terribile frase: “E adesso come lo ciclostiliamo”? Già, perché il ciclostile non era così facile da trovare, forse se Zemeckis avesse girato “Ritorno al futuro” in quegli anni avrebbe immaginato una scena in cui ce n’è uno in tutte le case. Ma quella preziosa macchinetta allora era appannaggio di grossi uffici, scuole, parrocchie, sindacati oppure di costosi centri stampa. Che fare? quel prezioso documento rischiava di morire lì, restare confinato nel foglio su cui era stato scritto con la biro. Nel silenzio sgomento ricordo il sorriso compiaciuto di un seminarista e il suo gesto con l’indice a dire “Da’ qua, ci pensiamo noi”. Dovemmo constatare, a bocca aperta, che qualcuno in Seminario avrebbe ciclostilato quel documento sovversivo. In ogni caso il Mondo non cambiò, almeno non in maniera percettibile.

Il ciclostile. Anni dopo, molti anni dopo, conversavo con don Fausto Lanfranchi, a proposito di un libro su don Oreste Benzi che stavo scrivendo. Don Fausto era stato Rettore del Seminario e nel ‘68 aveva fatto la sua piccola rivoluzione: aveva mandato i seminaristi nelle scuole superiori statali, “a scuola con le ragazze”, come scrisse uno scandalizzato rotocalco. Parlammo un poco di quel periodo, di quei seminaristi mandati a studiare fuori dalle mura proprio in quegli anni caldi. Don Fausto era un po’ preoccupato per quei ragazzi che si trovavano a partecipare ad assemblee e perfino ad occupazioni. Aveva comunque incaricato don Oreste, loro padre spirituale, di seguirli. Cosa che faceva volentieri: “A lui piaceva quel clima di novità. Pensa che gli ciclostilava i volantini”!

Il ciclostile. Ne abbiamo visto uno, io e mia moglie, in un viaggio a Praga, al museo del Comunismo. Se siete da quelle parti, visitatelo, si trova facilmente, è proprio sopra il McDonald. Fra le tante cose interessanti c’è anche un ciclostile, nella stanza arredata come l’ufficio del Commissario Politico. Era sotto un cartello che spiegava come viaggiasse l’informazione dell’opposizione al regime comunista, il Samizdat. Vi si parlava di documenti e di interi libri battuti a macchina di notte, sei copie alla volta, con la paura che qualche vicino collaborazionista sentisse il ticchettio e denunciasse l’attività clandestina alla Polizia politica. E il ciclostile? Quei pochi che c’erano erano strettamente controllati dal Partito e dalla Polizia. Averne uno in casa significava una condanna a morte. Allora ho capito cos’era veramente il ciclostile: era la Libertà. Libertà di opinione , libertà di stampa o semplicemente Libertà incarnata non in una bandiera al vento, ma negli ingranaggi e le lamiere di una macchina da ufficio.

Il ciclostile. E l’articolo? dovevo scrivere duemiladuecento caratteri sul primo numero (ciclostilato) della rivista “Sempre” e ne ho scritti seimilatrecentonovantuno solo sul ciclostile. Vabbè, finiranno sul blog. E nell’articolo?

” …al ciclostile, metodo di stampa che richiedeva un’attrezzatura modesta, alla portata di quasi tutte le parrocchie e di molte associazioni”.

Centotrentasette caratteri.

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